“Parasite”, vincitore della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, è uscito la settimana scorsa: come al solito entro in sala avendo accuratamente evitato di leggere le recensioni di amici o giornali, non ho guardato nemmeno il trailer, quando un amico fidato scrive “da non perdere” per me è un indizio sufficiente, se il premio non fosse stato abbastanza.La famiglia Kim abita in un seminterrato, vive di espedienti e lavori indispensabili e invisibili quanto un wi-fi senza chiave. Piegano i cartoni delle pizze per una pizzeria d’asporto, asciugano calzini ed indumenti in ogni parte della casa ed è stupefacente la semplicità con cui festeggiano le piccole cose, di cui sono grati, attorno al tavolo di casa, come a segnare la crucialità di una tappa, in una maratona emozionale in cui l’Empatia è il premio massimo per l’umana maturità.
Un giorno come tanti Ming, un amico delle superiori del figlio, fa visita in casa Kim offrendogli un lavoro come sostituto insegnante d’inglese privato per una coetanea ricca mentre lui sarà all’estero: il ragazzo accetta titubante, rassicurato dall’amico sulla semplicità dell’allieva. Con la proposta di lavoro, Ming porta in omaggio una pietra ornamentale molto preziosa che diverrà metafora e chiave di un apocalisse che non esplode ma corrompe ogni cosa.
Progressivamente, le due famiglie protagoniste di questa storia entreranno sempre più in contatto: la loro distanza e diversità radicale e valoriale li porterà non a confondersi l’un l’altro, nemmeno a sovrapporsi, piuttosto ad accomunarsi nel modo in cui la disuguaglianza sociale ne ha alterato la percezione di Realtà. Inizia un gioco delle parti, infinito ed inesorabile, com’è una lotta di classe in piena regola che solo la purezza del bimbo più piccolo (considerato l’artista di casa) riuscirà a smascherare con una sorta di leitmotiv olfattivo che risveglia e richiama qualcosa di incomprimibile. Tutte le persone al servizio dei ricchi hanno quella puzza, quell’odore, sono come impregnati di metropolitana (e capacità di sottomissione).
Quando sono tornata a casa ho ripassato la filmografia di Bong Joon-ho ricordando di aver visto, nel 2013, un film di cui era stato scrittore, ovvero “Snowpiercer”. Ricordo vividamente il finale con la neve ad inghiottire il finecorsa di un treno e di essere uscita da quel film delusa, incapace di trovare una chiave per quello che superficialmente avevo definito “la fine del Mondo sul non-Orient Express” : un treno con gli ultimi abitanti della terra, selezionati a specchio della scala sociale, attori di una sfida alla conquista della testa del treno per il potere e la sopravvivenza.
Dopo aver visto “Parasite” tutto ha avuto senso: nel film il regista corrobora la sua visione del Mondo, iniziata con “Snowpiercer”, disegnando una rivoluzione sociale possibile, declinata nel potere della contaminazione. È sorprendente quanto ad un arricchimento non segua un miglioramento delle condizioni di vita della famiglia povera, che deriva dalla mancanza di strumenti culturali, viziata dalle abitudini e da una sete atavica di vendetta che è sistemica più che giustificata. Per la prima volta la rivoluzione non cerca il sovvertimento ma l’equità: la contaminazione è il motore dei sentimenti umani dai più bassi ai più alti, dalla vendetta alla compassione che diviene empatia sopra la neve che tutto stratifica a purifica.
Nel sognare l’equità e il riscatto, il giovane protagonista si confida al padre con un’empatia quasi carnale che ricorda “Dephaan” di Audiard, mentre cerca di tenere la mente aperta come ci aveva insegnato Kore’eda un paio d’anni fa, proprio a Cannes, con “Un affare di famiglia – Shoplifters”; cerca un modo per imparare dagli errori del padre e, contemporaneamente, un personale modo per uscire da una malsana circolarità di scrivere il proprio destino di uomo prigioniero.
A pensarci bene, un seminterrato non è poi meno sottoterra di un bunker.