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Le visioni di Nemrac (DFF edition) – Café de Flore

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Data di pubblicazione 16 Marzo 2021
Tempo di lettura Lettura 4 minuti

CAFÉ DE FLORE: LA VITA È UN DJ SET, L’AMORE IL NOSTRO BRANO PREFERITO

Credi nell’anima gemella?
Sì ci credo

Per preparare questo pezzo sono andata indietro nel tempo, tra gli studi di cinema ed i ricordi dei film visti, e il primo film con protagonista una persona con sindrome di Down di cui ho memoria è “L’ottavo giorno” di Von Dormael, presentato nel 1995 al Festival di Cannes.

Il film di Von Dormael racconta di due uomini adulti che stemperano le reciproche solitudini nella magia dell’incontro e poi nella reciprocità sghemba di una relazione necessaria, le cui sfumature mutano nel corso del film con il ritmo imprevedibile di un giro in altalena, incommensurabile eppure indelebile come lo sono le emozioni scaturite dalle prime volte.

Nel 2011, alla 68° Mostra del Cinema di Venezia, Jean-Marc Vallèe presenta invece Café de Flore, annunciato come una doppia storia d’amore (quale superficialmente può essere definito).  I protagonisti sono Antoine (dj canadese sulla cresta dell’onda), due bimbe meravigliose e Carole, moglie devota dalla quale lui sta per divorziare per amore incomprimibile di Rose, una giovane dai capelli biondi, trasparente ed inarrestabile nel cercare senza ossessione la vicinanza del suo amato. A guardarli, Antoine e Rose sono fatti per stare insieme: tra loro c’è un magnetismo inspiegabile, la loro complicità non ha bisogno di parole, si cercano e si incastrano senza intenzione di ferire. Se la loro relazione fosse una metafora filosofica, in una parola sarebbe sillogismo, con i corpi e le storie a rappresentare le premesse di una predestinazione.

La seconda storia d’amore, motore indispensabile a decifrare la forza del sentimento che lega Antoine e Rose nel presente, è ambientata alla fine degli anni 60 a Parigi ed è la storia di Jacqueline, madre single determinata a non far sentire a Laurent (bimbo trisomico, ndr) l’assenza del padre e l’indifferenza del Mondo intorno. Madre e figlio vivono le giornate costruite su una solida ritualità fatta di piccoli gesti, una fisicità densa d’abbracci ed accortezze precise; e poi c’è il disco preferito di Laurent, che poi dà il titolo al film, quello che innesta la giornata sul buonumore ed innesca la reciprocità tra i due ogni giorno, un giorno alla volta, come fosse l’ultimo. La ritualità è certezza della presenza, codificata in sorrisi dosati e sinceri, negli occhi di Laurent che si spalancano alla vista del largo sorriso della madre.

Un giorno come tanti, in classe di Laurent arriva Veronique e qualcosa cambia: il cuore del bimbo “s’allarga” per fare spazio ad un altro paio di braccia che lo cercano, nella luce di occhi affusolati e spensierati di quell’età. Se il cuore di Laurent si gonfia con l’arrivo di Veronique, qualcosa dentro a Jacqueline si spezza senza soluzione di continuità, per la vita di entrambi. In che modo le due storie sono intrecciate? Lascio alla visione il compito di svelarlo, dicendovi solo che la pace ha il sole d’una domenica di tarda primavera ed il profumo di un nuovo inizio.

Jean Marc Vallèe, fattosi conoscere al pubblico con C.R.A.Z.Y. nel 2005, prima della consacrazione internazionale del 2013 con Dallas Buyers Club gira una storia dove amore e predestinazione sono gli ingredienti per raccontare di un’umanità universale, non allineata e difficilmente categorizzabile, in cui la diversità travalica senza retorica i confini della conclamata disabilità. A questo si aggiunge che, probabilmente per la prima volta, due persone trisomiche vengono presentate allo spettatore come bambini parte integrante d’una classe di pari, con le loro precise preferenze: gusti desideri e progetti di reciprocità. Laurent e Veronique vengono caratterizzati come soggetti appassionati e rapiti positivamente dalla presenza dell’altro e che nell’altro scorgono la possibilità di comprendersi, di bastarsi, senza per questo rinnegare il passato che ha preceduto il loro incontro.

Vallèe demolisce l’idea che le persone trisomiche (e con loro il resto degli esseri umani) possano essere unicamente persone da accudire e da proteggere, rappresentandole come attive, determinate e desideranti della propria autonomia anche affettiva, senza dover ricorrere ad orazioni persuasive ma semplicemente con la messa in scena dell’amore, emancipato dalla mitologica devozione che, nell’incomprimibilità dei gesti e nella spontaneità del sentire, agisce per un Mondo più accogliente.

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