LE VISIONI DI NEMRAC – Dogman: la cura nelle mani e il sacrificio nel cuore.

Ricordo ancora oggi il salto nella poltroncina che ho fatto con la sequenza iniziale di Gomorra quel colpo di pistola alle spalle, talmente assordante da procurarmi quasi un’allucinazione olfattiva di polvere da sparo.

Col tempo, ho scoperto essere una soluzione ricorrente negli incipit di Garrone, una collaudata tecnica immersiva per farti entrare emotivamente ed immediatamente nel mondo narrativo delle sue storie.

A tal riguardo l’icipit di Dogman non è da meno: un mastinoide abbaia ferocemente mostrando in denti in primo piano infastidito dall’acqua che Marcello distribuisce accuratamente nel suo manto insaponato. Quel verso rabbioso sovrasta la voce di Marcello che inneggia alla calma puntando sulla brevità dell’atto, appena la bestia si placa un momento, si sovrappone l’aspirapolvere che asciugherà la schiena e il muso labbroso del cane, che improvvisamente in quello sbuffo d’aria rumoroso riconosce un momento di piacere.

Marcello nel suo negozio, dimora di sacrifici e rinunce, si prende cura dei cani, come fossero bambini, figli, creature che in quel luogo si spogliano delle loro peculiarità razziali o specifiche inclinazioni; sono i protagonisti e fruitori di un’ arte della cura fatta di gesti piccoli, parole evocative e mani sapienti.

Marcello è un’ uomo di bassa statura con occhi enormi, zigomi scavati fronte spigolosa, mani tozze nodose e callose, dedite al servizio del benessere altrui. Ha anche un segreto, come suo scrigno, di cui solo sua figlia Alida ha la chiave: un sorriso aperto, larghissimo che, nei sui denti irregolari e sproporzionati per la sua stessa bocca, quando s’apre pare un’ epifania. Solo Alida sembra conoscere le combinazioni per quel miracolo: l’amore di suo padre la fa sentire importante e consapevole del suo ruolo salvifico in quella reciprocità. Hanno il loro mondo, sotto il livello del mare, dove si incontrano nella magia dell’ antigravità, dove il mondo torna “dritto”: Marcello è padre lì sotto, Alida è al sicuro e il contatto fisico, la prossimità scrivono la loro relazione nell’ auteticità del bene.

Marcello ha aperto il suo negozio in periferia, il lato ovest di un quadrato con al centro un parco giochi che, dopo il tramonto, s’intona perfettamente con le pareti di palazzi che chiudono l’orizzonte umano in un’ arena di gladiatori. I suoi colleghi – vicini lo conoscono lo rispettano, conoscono Alida, sanno che tutto quello che di buono c’è nel suo fare, è per amor suo e i suoi desideri da esploratrice marina .

La dedizione e la qualità del lavoro però, non pagano, non abbastanza, e così Marcello col suo spirito resiliente e la sua pragmaticità sgangherata si ritrova ad accettare lavori sporchi per potersi garantire i suoi momenti di pace con sua figlia. Un furto, un prestito per droga, un altro furto in nome di precarie promesse per un presente più semplice, meno buio pur nella fatica.

Ci sono angoli di mondo in cui anche le indoli più positive perdono l’innocenza, posti dov’è impossibile restar puliti e sopravvivere; il quartiere di Marcello è uno di quelli.

Nonostante questo Marcello non può morire: resta lì col suo errore più grande sulle spalle, a guardare l’alba riempire il giorno di luce, il suo cane ascolta la sua solitudine piangere solo con gli occhi, seduto al centro di quell’arena vuota, quell’orizzonte chiuso che gli nega un futuro per mantenere la promesse al suo amore più grande.

Non vedevo una sequenza finale così potente da molto tempo: pur nella disperazione, c’è così tanta poesia che da spettatrice totalmente immersa ho visto arrivare il cammello de Le meraviglie di Alice Rohrwacher, metafora del potere straniante dei desideri esauditi.

Nel film di Garrone, le conseguenze di una fine (cercata) hanno i poteri magici dei fuochi fatui delle ballate di Coleridge, e il coraggio di raccontare poeticamente dell’umano orrore, che è anche l’umano errare.

Ho riconosciuto subito, da lontano, i luoghi dove il film è stato girato, aveva qualcosa di famigliare, ho “rivisto” la terra di Indivisibili di De Angelis ma con una sostanziale differenza pur nella coincidenza geografica: la storia e il destino delle gemelle, si affacciava al mare aperto, cornice ed insieme limite ultimo di quel cammino. Nel destino di Dogman, il suo quadrato, il suo quartiere, sono l’arena, il vortice in cui il suo percorso di dipana per ripegarsi, senza alternativa. Forse è davvero la città, che in un modo o nell’altro chiama a sé i suoi abitanti, senza distinzioni.

“Tutt’ eguale song’ e criature […]

se sape come si nasce

ma nun se sape comme se more”

Carmen Nemrac Riccato