LE VISIONI DI NEMRAC – The Florida Project: Disneyland è dietro l’angolo, il futuro oltre il muro di folla

“Si parte per conoscere il mondo, si torna per conoscere se stessi, il confine è così labile, le speranze s’ assomigliano, non siamo che abitanti solamente”

(Oriente N. F.)

Vivo una disabilità da quando sono nata, non mi sono mai sentita sfortunata, mi sono sempre sentita diversa ma non significava essere speciale, significava lottare per stare nel quadrato immaginario in cui stavano tutti i miei compagni i miei amici, la mia famiglia, i passanti che in paese salutavano compassionevoli stando attenti a non additare. Quel quadrato immaginario era anche la mia classe, il mio parco giochi nel cemento dietro casa, i miei amichetti che venivano a casa per provare il gioco da tavolo che non avevano ricevuto a Natale o per il compleanno.

Con una diversità, che tu ce l’abbia da sempre o che ne diventi padrone da adulto, il destino ti regala un metronomo interno, che nel silenzio disegna la trincea della tua battaglia per l’inclusione. La mia sedia a ruote nella sua funzione sociale, divide il mio mondo a metà: le persone che mi scorgono per intero e quelle che vedono le mie ginocchia piegate e le mani sporche d’asfalto. In tutto questo c’è qualcuno di straordinario: i bambini, il loro sguardo affamato, le manine curiose che provano a far girare la tua ruota aggrappandosi sui raggi, le loro domande coraggiose a cui mi piace rispondere con la magia di una storia, la mia, con un finale di inclusione possibile. Loro vivono e guardano dalla soglia, delle due metà del mondo, quella sottile linea che gli fa percepire il mondo come un intero, percorrono i loro primi anni sperimentando la bellezza e la possibilità di non scegliere da che parte stare con il coraggio ad animare il cuore.

Ho scelto questo prologo, per introdurvi l’ultimo film di Sam Baker The Florida project (in Italia è uscito come Un sogno chiamato Florida), perchè la protagonista, che si chiama Moone, ha sei anni e il suo quadrato immaginario è un rettangolo delimitato da due palazzoni uno viola ed uno verde, due strutture ricettive situate proprio dietro Disneyland il più famoso parco divertimenti del Mondo.

Nel pieno delle vacanze estive Moone passa le sue giornate giocando con il suo migliore amico Scooty: si rincorrono, chiamandosi e nascondendosi uno dall’altro facendo delle loro voci i mattoncini di un lego con cui costruire la loro complicità. Girovagano e passeggiano lungo il perimetro di quel rettangolo disegnato dai motel, attraversano i cortili, abitano i parcheggi cercando anfratti nascosti con la meticolosità di una caccia al tesoro. Animano i loro giochi coinvolgendo i clienti delle attrazioni del parco per mangiare i gelati o fare un tuffo in piscina. Hanno un loro rifugio fuori in una casa abbandonata, dove sperimentano i pericoli misurando il coraggio, spingendolo fino al limite, nel punto esatto dove la spregiudicatezza diviene paura.

La sera, quando Moone rientra dalle sue scorribande, si sistema nella vasca da bagno, finendo per lavare i capelli alle sue sirene con una sorprendente cura, defilata dagli sguardi dei clienti notturni della madre che affronta le giornate, e i bisogni della bimba, non giorno per giorno ma ora per ora.

In questo microcosmo, gli adulti sono ritratti come nelle strisce di Schulz, dettagli giganti in un mondo fuori misura per loro: ugualmente lontani dalle responsabilità quanto dalle cure parentali. Sbucano d’improvviso, senza annunci, urlando a squarciagola per temperare gli comportamenti eccessivi dei piccoli, con la stessa naturalezza e platealità (funzionale) con cui si bandiscono i pedofili o allontanano gli struzzi, ospiti inattesi dei parcheggi all’alba.

Sean Baker lascia in tasca l’iphone con cui aveva tentato un affresco della generazione millennials nel suo precedente Tangerine, con la consapevolezza che il dispositivo non faccia il discorso, per raccontare l’emarginazione all’ombra della ribalta. Lo fa con una storia di micro eventi con macro personaggi, facendo dei corpi e delle voci casse di risonanza e amplificatori di un disagio che non ha speranza nei tentativi d’evadere, piuttosto un’ occasione nell’umana possibilità di immaginare un futuro, comunque indecifrabile nelle sue sfumature.

La voce dal timbro acuto di Moone, talvolta assordante, è perfettamente accordata ad un corpo perennemente in movimento, dentro al perimetro di quel rettangolo-regno di cui è padrona nella misura in cui ne conosce ogni angolo: la sua voce rimbalza nello spazio tra i palazzi e lo rende inespugnabile.

La voce della bimba è come la pallina nella partita di tennis alla fine di Blow-up. Il corpo irrefrenabile cerca continuamente il confine di se stesso al di fuori, mancando la sua ontologica funzione di definizione identitaria: non tutela e non custodisce segreti ne desideri. Le parole sono sopravvalutate, i dialoghi privi di reciprocità, mancano la comunicazione lo scambio e la significazione. La voce è l’unico significante della presenza umana in quel microcosmo.

La povertà, il disagio e l’involuzione sono ciò che anima la madre, con la sua irragionevole disobbedienza e il suo corpo al servizio degli istinti e della sopravvivenza stessa, ella vive nell’inconsapevolezza di essere (senza volerlo davvero) l’unica presenza che la bimba può imitare.

Al di fuori di quel rettangolo d’ombre, tutto è silenzio, o peggio, illusione.

Quand’è che il frammento di mondo che conosciamo ed abitiamo si trasforma da rifugio in una trappola?

Carmen Nemrac Riccato