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“Din Don Down – Alla ricerca di (D)io”: il nuovo podcast di Paolo Ruffini dà voce a ragazze e ragazzi con Sindrome di Down

Data di pubblicazione 28 Maggio 2025
Tempo di lettura Lettura 4 minuti

«Chi è Dio? E cos’è l’Io?». Una sola lettera le separa, ma una vita intera può stare dentro queste domande. Paolo Ruffini parte proprio da qui nel suo nuovo video-podcast “Din Don Down – Alla ricerca di (D)io”, disponibile dal 27 maggio 2025 sui suoi canali social (Instagram, Facebook e TikTok) e in versione integrale su YouTube e Spotify. Un progetto che nasce come spin-off dell’omonimo spettacolo teatrale – andato in scena in tutta Italia con il tutto esaurito in ogni data – e che si propone di esplorare i grandi temi dell’esistenza e della spiritualità attraverso le voci di ragazze e ragazzi con sindrome di Down.

Come già accaduto nei fortunati format Il Babysitter – Quando diventerai piccolo capirai e Il Badante – Il presente è già il futuro, Ruffini sceglie di mettersi in ascolto: il suo non è un racconto sulla disabilità, ma un tentativo di guardare il mondo da un’altra angolazione, lasciandosi guidare da chi viene troppo spesso escluso dal discorso pubblico.

Un format breve e virale, tra ironia e profondità

Ogni episodio di Din Don Down è costruito intorno a una domanda universale – “Che cos’è l’amore?”, “Hai mai avuto paura?”, “Che idea hai di Dio?” – a cui i protagonisti e protagoniste rispondono con sincerità, ironia e profondità disarmante. Le loro parole non cercano l’effetto speciale, ma offrono verità semplici e potenti, capaci di aprire uno squarcio sul modo in cui abitiamo il nostro tempo e le nostre relazioni.

Il formato breve ed emozionale, già sperimentato con successo da Ruffini, si conferma ancora una volta la chiave per intercettare il pubblico dei social (oltre 4 milioni di follower complessivi) e favorire la condivisione virale dei contenuti. Eppure, dietro ogni clip di pochi minuti, c’è un lavoro profondo di ascolto, dialogo e cura narrativa, che evita il rischio della banalizzazione.

«Questo podcast non vuole parlare di disabilità, vuole parlare di vita», spiega Ruffini. «Non vogliamo rappresentare questi ragazzi e ragazze, li vogliamo ascoltare. Perché credo che per incontrare davvero qualcuno serva solo una cosa: smettere di spiegare e iniziare a domandare».

Una riflessione sul linguaggio e sulla rappresentazione

Negli ultimi anni, il percorso artistico e comunicativo di Paolo Ruffini si muove su un confine sottile tra intrattenimento e divulgazione sociale. I suoi progetti mirano a rendere visibili soggettività spesso ignorate, e lo fanno con un linguaggio emotivo, immediato, altamente condivisibile. Ma non mancano critiche e interrogativi: fino a che punto questi format riescono a sfuggire al rischio dell’“estetizzazione della diversità”? Quanta autenticità è possibile conservare quando si lavora su contenuti pensati per la viralità?

Din Don Down non elude queste questioni, ma prova a rispondervi con i fatti: non costruisce personaggi, non impone narrazioni. Piuttosto, lascia spazio. E in questo spazio emergono storie, pensieri, emozioni che non vogliono essere esemplari, ma semplicemente vere.

Il podcast non dà risposte, non impone modelli, non cerca commozione forzata. Vuole generare domande. Vuole innescare empatia. Vuole far riflettere.

Un passo in più nella narrazione della diversità

Din Don Down – Alla ricerca di (D)io si inserisce in un percorso più ampio, che vede Ruffini impegnato nel dare voce a chi ha spesso solo il ruolo di spettatore. Con la Compagnia Mayor von Frinzius – formata da attori e attrici con disabilità – porta in scena spettacoli che smontano stereotipi, mettendo al centro l’unicità di ogni persona. Il podcast è un’estensione di questo lavoro teatrale, un modo per portare anche online quella stessa energia, quella stessa verità.

Il successo di questo progetto, come dei precedenti, dimostra che esiste un pubblico pronto ad ascoltare, se solo qualcuno ha il coraggio di fare le domande giuste. E che spesso, per capire qualcosa in più su Dio, sull’Io, sull’amore o sulla paura, basta cambiare punto di vista.

«Le persone che ho intervistato non sono uguali a me, non sono diverse da me. Sono uniche. Come me», conclude Ruffini.

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