La storia di Chiara, un 8 marzo per #rifiorire

di Mauro Costanzo

Oggi è la giornata in cui rifioriscono le mimose. Una giornata a cui la città di Torino sta continuando ad aggiungere nuova simbologia grazie a quelle scarpette rosse divenute icona del 25 novembre, ricorrenza dedicata alla Lotta Contro la Violenza sulle Donne. Anche la settima edizione di “ Just The Woman I Am” (andata in scena in formato Covid), è stata da tutti ricordata per la simbolica e artistica distesa di scarpette rosse che ha ridelineato, rafforzandoli, i contorni di una festa spesso frastagliati e dissonanti tra loro. La storia a diverse tonalità di Chiara Cavallotto è strettamente connessa con la campagna online #Rifiorire: in questa giornata dalle rinnovate valenze cromatiche, iconiche, valoriali, immersi nei ricordi, sfogliando vecchi album di foto, abbiamo fatto due chiacchiere con lei.

Chiara, iniziamo dalla tua infanzia, dalla tua adolescenza e dalla tua disabilità. Come ha impattato, quest’ultima, sulle prime fasi del tuo percorso di vita?

“Ho 36 anni e sono una donna con disabilità fisico-motoria dovuta ad un trauma prenatale”.

La famiglia è un pilastro per tutti. Proprio in un momento come questo, in cui a colpi di DPCM ci viene “prescritta” una lontananza necessaria da genitori e nonni, s’insinuano tra le pieghe di queste misure importanti riflessioni sul valore di questa istituzione e legame inscindibile. Qual è e qual è stato il rapporto con la tua famiglia? E quanto ha inciso sul tuo processo di crescita?

“Fin da piccolina i miei genitori e i miei nonni si sono presi cura di me, facendomi condurre una vita il più ‘normale’ possibile. Riflettendoci ora sento di poter affermare che, a volte, il loro ‘troppo amore’ è stato un po’ castrante ma molto importante.”

Capitolo scuola. Che studi hai fatto? Che studentessa sei stata? Nel tuo percorso hai incontrato più barriere architettoniche o più barriere socio-culturali?

“In adolescenza devo confessare di non aver avuto un rapporto sereno con la mia disabilità motoria e con i miei limiti fisici. Mi irritava molto il non poter correre e il non poter andare in tutti i luoghi che frequentavano i miei compagni di classe perché, magari, erano pieni di barriere architettoniche. Le mie difficoltà motorie, unite alla paura del confronto, hanno fatto in modo che io potessi contare i miei amici ‘sulle dita di una mano’. Per gli altri era poco accattivante e molto noioso uscire con me perché non potevo percorrere lunghe distanze senza stancarmi ed invece di andare in discoteca ad ascoltare musica assordante, preferivo, di gran lunga, trascorrere il pomeriggio godendomi un bel film al cinema o un divertente spettacolo teatrale. Se ripenso alle mie amicizie dell’epoca o, almeno, quelle che credevo tali, mi torna in mente il mio vissuto di frustrazione, inadeguatezza ed inferiorità verso l’altro, a cui si aggiungevano le mie difficoltà fisiche oggettive che, sommate a quelle sensazioni, posso assicurare che pesavano più di un macigno. La dimensione che sentivo più mia, nella quale ero certa di essere davvero capace, performante e adeguata, era appunto lo studio. La mia formazione è di tipo umanistico: sono in possesso di una Maturità Magistrale Socio-Psico-Pedagogica ed ho frequentato il Corso di Laurea In Scienze e Tecniche Neuropsicologiche dello sviluppo e dell’Educazione Infantile fino al quarto anno; poi, una volta sposata, mio marito non ha più voluto che studiassi quando a me piaceva moltissimo. Quando la mia concentrazione incontrava lo studio mi potevo finalmente permettere di lasciar scivolare via ogni preoccupazione, timore ed amarezza. Mentre creavo e ripetevo le mie mappe concettuali di psicologia, filosofia e metodologia della ricerca ero felice di scrivere, riassumere e collegare i diversi argomenti trasformandoli in un discorso preciso, scorrevole ed armonico. Durante le interrogazioni ed i compiti in classe tenevo molto a rispondere alle domande, utilizzando un linguaggio specifico ed adeguato ad ogni richiesta. Per questa ragione ho lavorato molto duramente sulla mia dialettica e sul miglioramento costante della mia capacità espositiva: sono sempre stata una ragazza molto competitiva ed esigente con me stessa, costantemente desiderosa di dimostrare agli altri il mio valore attraverso ciò che facevo. Di conseguenza, più miglioravano i miei voti e più cresceva la mia autostima di ragazza che stava cercando di diventare donna. Ogni qualvolta io prendessi un voto positivo, la mia ‘vocina’ interiore mi diceva: vedi, Chiara, con questo compito hai dimostrato che, nonostante le tue difficoltà fisiche, sei brava in qualcosa e riesci a portare a termine con profitto i tuoi impegni”. In quel momento l’immagine e la percezione di me stessa erano molto positive ed io mi sentivo tanto forte da spaccare il mondo e vincere qualunque sfida la giornata mi ponesse innanzi. Il desiderio di elevare la mia autostima ha sempre giocato un ruolo determinante nel guidare le mie scelte, anche quando queste si sono rivelate, sin dai primi momenti, poco razionali, troppo emotive o addirittura scellerate, come nel caso del mio primo vero innamoramento”.

Poi arriva l’amore appunto ..ma racconta tu Chiara..

“Non mi vergogno a raccontare di aver donato tutta me stessa ad un uomo molto piacente, che ha fatto breccia nel mio cuore con il suo comportamento lusinghiero, accudente e molto amorevole. Nei primi idilliaci mesi di fidanzamento ho vissuto una vera e propria favola con l’uomo da me scelto come principe, che spendeva la sua giornata a ricoprirmi di complimenti, carezze e coccole. Con i suoi abbracci, egli era in grado di farmi sentire protetta, annullando ogni mia fragilità. Tutto era soltanto pieno di noi, della nostra voglia di stare insieme, della nostra felicità. Desideravamo vivere il nostro amore a tutte le ore, tutti i minuti di tutti i giorni, tant’è vero che abbiamo iniziato una convivenza dopo due mesi di frequentazione e ci siamo sposati dopo soli nove mesi di fidanzamento, tra lo stupore e l’incredulità di tutti. La precipitosità di questa mia scelta mi ha gettato, però, nel buio più pesto; mi sono ritrovata a vivere in una prigione dorata, con un uomo che non era affatto un principe bensì un mostro manipolatore, al quale mi sentivo legata non da un sentimento ma dalla sudditanza psicologica e fisica, che indossava la maschera dell’amore. Per fortuna, in tutta quell’oscurità nella quale vivevo si è stagliato un luminosissimo raggio di sole. Dopo due anni di matrimonio è nata nostra figlia, la nostra meraviglia, colei che io considererò, per tutta la vita, il mio miracolo vivente. Non potevo crederci: io, ragazza disabile dalla nascita, piena di insicurezze e dubbi sulle mie capacità, ero riuscita a realizzare il mio più grande sogno della vita, diventare mamma mettendo al mondo una splendida bambina. Mi sentivo al settimo cielo, non potevo desiderare altro, ero al culmine della felicità. Considerando, però, la realtà dei fatti: durante la vita coniugale io non ho mai potuto implementare un rapporto autentico madre-figlia con lei in quanto tutto era, costantemente, mediato dall’assidua presenza e dalla soffocante mania di controllo del padre. Pur rendendomi conto che la persona che diceva di amarmi era diventato il mio carnefice ed io la sua vittima, in quel momento mi sentivo fragilissima e purtroppo non ho avuto la forza adeguata per oppormi. Anzi quando lui mi diceva: sappi che, se mi lascerai, io ti toglierò la bambina per sempre e la poterò via con me perché tanto tu sei solo un’handicappata senza un lavoro e a te non la potranno mai affidare. Io mi guardavo allo specchio e pensavo semplicemente: ha ragione, io sono proprio ciò che lui sta descrivendo. Del resto, quando te lo senti dire dalla persona che ami e che dice di amarti, se sei fragile come lo ero io finisci per crederci. Sono persino arrivata a pensare di meritare le botte per tutti gli errori che commettevo. Tra l’altro, elemento da non sottovalutare per nulla considerata la mia disabilità motoria, durante la mia vita coniugale ho vissuto in una villa su tre piani che rappresentava, per me, una ‘prigione dorata’ con scale, porte corazzate, finestre con grate chiuse a chiave e, soprattutto, con un cancello d’uscita chiuso con una catena molto resistente e raggiungibile solo dopo aver sceso quattro gradini in muratura senza corrimano. Insomma uscire di casa con mia figlia senza la presenza e l’aiuto di mio marito era, per me, un’impresa impossibile. Dopo un bel po’ di tempo, finalmente, ho avuto la forza di infliggere un’immensa frattura al legame matrimoniale, affrancandomi dall’uomo al quale avevo concesso l’esclusiva e l’assoluta padronanza della mia vita e di quella di mia figlia”.

Qual è stato lo step successivo?

“Con la separazione, mia figlia è andata in affidamento etero-familiare per 4 anni, fino a quando non ho portato a termine il percorso di potenziamento delle mie capacità personali e genitoriali nel cohousing Casa a Dora. Prima della separazione Bianca mi chiamava per nome e non mamma: qui ha avuto inizio, però, il periodo più doloroso e lacerante mai vissuto. Pur vedendoci tutte le settimane, non abbiamo potuto vivere insieme e abbiamo intrapreso due percorsi paralleli che hanno consentito ad entrambe di riprenderci e conoscerci.”

Da chi hai avuto sostegno e supporto in questa delicata fase del tuo percorso di vita?

“Siamo state sostenute da persone meravigliose: la nostra assistente sociale dell’epoca Paola Magosso e le mie educatrici Federica Bieller e Silvia Trisoglio della Cooperativa Sociale “Il Punto Onlus” di Torino, presieduta dal Dott. Ruggiero Sorrentino. Ma la mia immensa gratitudine va, sicuramente, alle due famiglie affidatarie che, dai quattro ai dieci anni, hanno offerto amore e si sono prese cura di mia figlia, donandole tutta la serenità ed il benessere che meritava in un momento in cui io non potevo farlo. Non rendo pubblici i loro nomi solo per ragioni di privacy e sicurezza. Ringrazierò per sempre sia le persone che ho citato sia quelle di cui non ho menzionato i nomi perché è grazie a loro che ho avuto il grande privilegio di rifiorire, partorire per la seconda volta la stessa bambina ed essere riconosciuta da lei come la sua mamma. Sono loro che si sono tuffate con noi nel fango in cui eravamo immerse, tirandoci fuori ed accompagnandoci a piccoli passi, giorno dopo giorno, a tornare ad essere mamma e figlia. Un grazie altrettanto speciale va certamente a tutto il personale dell’Ambulatorio Ginecologico aperto alle donne con disabilità ‘Fior di Loto’, dove mi sono recata subito dopo la mia separazione. Qui sono stata accolta dalla ginecologa Cristina Biglia, dall’ostetrica Sandra Sajano e dalla psicologa Laura Stoppa: con la loro professionalità molto accorta, con il loro sorriso ma, soprattutto, con la loro infinita dolcezza sono entrate in punta di piedi nella mia storia, curando il mio problema ginecologico ma riuscendo anche ad offrirmi l’ascolto ed il calore di cui il mio cuore aveva bisogno in quel momento, come accade ogni qualvolta io torni da loro per una visita”.

Come si è evoluto il tuo rapporto con Bianca?

“Ora viviamo insieme nella nostra nuova casa e siamo finalmente libere di costruire il nostro rapporto, il nostro futuro, la nostra vita. Di certo non sarà tutto roseo perché mia figlia è una pre-adolescente che sta cercando di costruire la propria identità, anche confliggendo molto duramente con me, ma poter svolgere le piccole faccende quotidiane (farle le coccole, accompagnarla a scuola, aiutarla a farei compiti, prepararle il pranzo, la cena e rimboccarle le coperte) è davvero prezioso. Lei ha il pieno diritto di essere serena, sicura di avere accanto la sua mamma di cui potersi fidare, alla quale potersi affidare, da cui ricevere abbracci, consigli e qualche volta anche rimproveri per il suo bene. Mia figlia dovrà sempre sapere che io la sosterrò sempre, pur lasciandole costruire la propria identità e la necessaria autonomia personale, rimanendo consapevole del fatto che la amo più della mia stessa vita e per lei ci sarò sempre”.

In chiusura di questa chiacchierata e di questo particolare 2020, è impossibile non parlare di Covid. Tra lockdown, mascherine e distanziamento, quali sono i tuoi flash di questo tuo 2020?

“In fondo è come se, fin dal principio del contagio, il mondo fosse caduto nelle mani di un re spietato e malvagio, che si è arrogato il diritto di travolgere gran parte della nostra vita e delle nostre azioni, insomma la nostra normalità. Tuttavia è vero, re Coronavirus ci ha costretti ad indossare le mascherine e a mantenere le distanze evitando gli abbracci, ma non ha vinto e non vincerà la guerra perché l’uomo sta costruendosi una nuova forma mentis, costituita anche da piccole attenzioni, per affrontarlo adeguatamente e infine per distruggerlo così come, purtroppo, lui ha fatto con le vite di tante persone che ha condotto alla morte. Quindi, ‘caro’ Coronavirus, non cantare vittoria: magari avrai anche vinto qualche battaglia, ma la guerra la vinceremo noi perché siamo abituati a lottare e a combattere, certamente non ci faremo sconfiggere da te!”.