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Le visioni di Nemrac (DFF edition) – La vita segreta delle parole

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Data di pubblicazione 9 Febbraio 2021
Tempo di lettura Lettura 4 minuti

Il silenzio custodisce tutte le storie (e le lingue) del Mondo

“Ci sono così poche cose,

il silenzio e le parole”

Una voce sopra il Mondo, una voce bambina, con la salopette rossa e il maglioncino azzurro: sembra lei la narratrice onnisciente di questa storia, almeno fino a quando non inizia per davvero. Un incendio su una piattaforma petrolifera: un uomo intrappolato in una cabina, i suoi compagni che cercano di sfuggire alle fiamme. Tutti ma non Josef che, quando scopre che il suo migliore amico è in pericolo, tenta un salvataggio. Le fiamme investono tutto, compreso il suo viso, poi tutto si spegne.

Dall’altra parte del mondo, Hanna è un’operaia modello in una fabbrica di materie plastiche: viene costretta dal direttore a prendersi un mese di ferie dopo quattro anni di condotta esemplare. La ragazza è spaesata da quella richiesta così anomala, non sa che farsene dei giorni vuoti nella sua vita routinaria fino all’osso, dove la solitudine e il silenzio la proteggono dalle sue stesse paure.

Hanna parte senza intenzione, arriva ed un pomeriggio al ristorante origlia casualmente la conversazione di Victor, uno degli uomini della piattaforma, ed accetta il temporaneo incarico di infermiera per Josef, le cui gravi condizioni ed ustioni ne impediscono il trasferimento sulla terraferma. Victor avverte Hanna di un frastuono cadenzato ma continuo che abita la piattaforma con la potenza di un inquilino indesiderato, la ragazza non risponde se non a domande pertinenti il suo incarico.

Sulla piattaforma le verrà assegnata la stanza che era di Josef e Hanna si ambienta in quella cabina annidandosi sul letto, sbirciando le foto di una vita sconosciuta, così lontana dalla sua abitata di ricordi e passione. Sin dal loro primo incontro in infermeria l’uomo, forse disinibito dalla sua temporanea cecità, inonda Hanna di domande, a cui si auto-risponde formulando le più disparate ipotesi sulla storia della ragazza, quasi incalzato dal silenzio ostico di lei che in quella stanza diviene Cora.

Quando, finalmente, Josef riesce a far breccia nel muro di silenzio in cui la protagonista abita indisturbata dal tumulto delle novità, scopre che Hanna/Cora è sorda: da quel momento ogni loro interazione si aprirà con la fatidica domanda se l’apparecchio acustico sia acceso, come segnale di una richiesta di accesso all’universo interiore di quella donna, che profuma di sapone alle mandorle e conosce la varietà culinaria dei tre ingredienti che la tengono in vita.

Inizia da qui una relazione fatta di indizi, inseguimenti, fantasie e scoperte che nell’atto della cura (che si scoprirà reciproca) dischiude nuove possibilità di conoscere l’amore e la reciprocità di quello stesso sentimento. Hanna ricomincerà a vivere, a mangiare cibi sconosciuti e a non avere più paura della prossimità, a scoprire che la vicinanza ed il desiderio possono crescere anche lontano dalla violenza e dalla brutalità, trovando il coraggio di raccontare l’origine della sua diversità acquisita, corazza per un dolore assordante al punto da dover spegnere l’interruttore del Mondo tutto.

Presentato alla Sezione Orizzonti di Venezia 64, con la sua opera “seconda” (non cronologicamente),  Isabel Coixet prova a bissare la perfezione dell’opera che l’ha presentata alle platee internzionali: “La mia vita senza me”, forte della sua capacità di decriptare le umane emozioni adottando un registro intimo, vivido ed insieme autentico, è stato supportato dalla presenza della sua attrice-feticcio Sarah Polley, uscita dal primo film per varcare direttamente la soglia del secondo.

“La vita segreta delle parole” è una storia in cui la diversità e la disabilità si incontrano per integrarsi al sentire dei protagonisti, con i loro cuori che non battono all’unisono e non diventano uno ma piuttosto si nutrono e si alimentano come in un effetto stereo, senza mai collidere o esplodere ma per saturare le stanze d’un amore mai didascalico. Se c’è qualcosa di imperfetto nella narrazione di questa storia è forse la ridondanza del racconto nel tentativo di universalizzare una storia, che è sì una di molte ma che non dovrebbe ergersi a simbolo di una macro-Storia solo accennata nel monologo (che suona retorico) di un personaggio secondario.

Quello che ricorderemo di Hanna sarà la sua determinazione a fare della cura nei confronti del suo paziente un modo per riscoprirsi viva, non semplicemente sopravvissuta all’orrore. Josef accetta questo modo d’amare fatto di concretezza quotidiana, ovvero tutto ciò che serve per costruire un nido in qualunque angolo della terra.

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