Le visioni di Nemrac (DFF edition): “The peanut butter falcon” – In viaggio verso un sogno

di Carmen Riccato

Il 2021 è iniziato e noi di Volonwrite stiamo aspettando (con leggera apprensione vista la situazione globale) la primavera per poter dar vita alla nostra creatura più inclusiva e cinefila: il Disability Film Festival! Per esorcizzare meglio l’attesa abbiamo deciso di riprendere a suggerirvi delle visioni (a tema) per accompagnarvi dentro il nostro progetto: spazieremo tra nuove uscite e film cult di un genere non genere che, attraverso la Storia del Cinema, ci racconta in che modo è cambiata la narrazione e l’approccio alla disabilità-diversità nella Settima Arte.

Cominciamo il nostro viaggio con THE PEANUT BUTTER FALCON – IN VIAGGIO VERSO UN SOGNO“Regola n°1 MAI RESTARE INDIETRO

Regola n° 2 IL CAPO SONO IO

I pesi li porti tu

Allora qual è la prima regola?

FESTEGGIARE”

L’opera prima di Tyler Nilson e Michael Schwartz inizia in un territorio minato, un aspetto della disabilità decisamente poco raccontato e lasciato in un cono d’ombra e mistero anche dalle storie e dai registi più coraggiosi, quasi (auto)giustificati da una scarsissima legiferazione e regolamentazione: l’innominabile quanto spinoso “dopo di noi”, il periodo della vita privata e sociale di una persona con disabilità successivo alla morte dei genitori, dei familiari o dei care givers a cui erano affidate le cure sanitarie e sociali ma anche affettive.

Zak, il protagonista di questa storia, ha 22 anni e da due vive in una struttura per anziani dopo che i suoi genitori lo hanno abbandonato. Zak ha la sindrome di Down e trascorre le sue giornate in camera a “consumare” una videocassetta sul Wrestling, affascinato dalla forza sovraumana e dal carisma di Salt Water Redneck. Con l’aiuto del suo empatico compagno di stanza-nonno Carl (un sempre convincente Bruce Dern, che sia in un ruolo da protagonista o, come in questo caso, in un “quasi cameo”) riuscirà a scappare dall’istituto determinato a raggiungere la scuola di wrestling e ad imparare dal suo idolo.

Da quel momento ha inizio un viaggio alla scoperta del Mondo, fuori dalle regole e dalle bolle della diversità: la disabilità ti etichetta in base a quello che non sai, di quello di cui non sei capace, mentre Zak sa di voler vedere dal vivo la sua mossa preferita, di volerla imparare dal migliore per diventare un wrestler professionista. Ad accompagnarlo in questa avventura, dopo un fulmineo e magnetico incontro, sarà Tyler, pescatore di granchi introverso e scontroso alla ricerca di un posto dove mettere nuove radici, in fuga dal passato e dal dolore per la perdita del fratello. Tra loro nasce una fortuita quanto inaspettata amicizia, di cui Zak sembra immediatamente consapevole quasi in un semplice desiderio di condivisione a cui  Tyler mai si sottrae, forse riconoscendo in quella relazione qualcosa di ancestrale simile alla complicità fraterna perduta. A distanza li rincorre Eleanor, la giovane direttrice dell’istituto dove Zak risiede, finendo per ritrovarsi parte di un triangolo che si scoprirà indissolubile.

Ciò che più è interessante e riuscito, in questo film, è il disegno continuo ed imperfetto di un equilibrio sottilissimo quando possibile. I dialoghi sembrano scritti da un funambolo delle parole che gioca con le acrobazie sul filo, consapevole di non avere la rete sotto di lui a salvarlo dai cliché del pietismo e degli eccessi melodrammatici. Il protagonista inizia il suo viaggio da eroe nella notte, in mutande, affamato solo della Vita vera (anche se lui non la chiama così), pronto a cedere tutti i suoi desideri del compleanno in nome di un legame che lo guardi con gli occhi di chi ne vede la forza e ne canalizza la cattiveria.

Corpi che si scontrano, si contaminano e si sporcano prima di scoprirsi complici, senza filtri, preavvisi, o sconti sulla verità e la violenza della Vita stessa. Cast stellare, che brilla dentro a ruoli perfettamente sagomati alle necessità, con la sensazione che il protagonista (unico non professionista Zack Gottsagen) non sia facilitato dai suoi colleghi ma semplicemente diretto egregiamente nella piena consapevolezza del suo potenziale. In ambito di disabilità era almeno dal 2007, da “The cake eaters” di Masterson, che non si vedeva una storia di formazione così convincente ed allo stesso tempo umile: una storia mai sopra le righe ma in grado di raccontarci qualcosa di illuminante sull’essere umano.

Chapeau Nilson&Schwartz!!!