Le visioni di Nemrac (DFF edition) – The rider – Il sogno di un cowboy

di Carmen Riccato

Quando le stelle illuminano il petto e le cicatrici tratteggiano il destino.

“Non dirmi che rifiuterai cavalli a destra e a manca solo perché ti fa male la testa eh?
Il cervello è leggermente diverso rispetto alle costole…
Si lo so, ma sono la stessa cosa per un cowboy: cavalcare il dolore. Non lasciare mai che il dolore ti abbatta, devi solo assicurarti che la testa non ti faccia spaventare…”

Avevo piani diversi per questa settimana: avrei voluto presentarvi “Cafe de Flore” di Jean-Marc Vallèe ma il calendario dei premi cinematografici della stagione mi ha convinto ad introdurvi al cinema di Chloe Zhào, seconda donna della storia a vincere un Golden Globe per il suo lavoro più recente Nomadland. Quest’ultimo è stato vincitore, tra gli altri, del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Oggi vi racconto di The rider, la sua opera seconda datata 2017, ambientata in una delle riserve del South Dakota. Questa è la storia di Brady e della sua famiglia, della sua comunità, dei suoi amici e del suo destino di cow-boy costretto a scoprirsi Uomo, amuleto per un Mondo che affonda le proprie radici nelle terre selvagge ed ancora poco contaminate.

Brady vive nella riserva, nella sua roulotte con suo padre e la sua sorella minore Lily, adolescente autistica, determinata a fare della sua voce uno strumento per l’equilibrio del suo microcosmo familiare. Brady ha avuto un gravissimo incidente durante il suo ultimo rodeo: dopo essersi fracassato il cranio, le sue capacità motorie sono rallentate ed è a suo agio solo in presenza di Gus, il suo cavallo chiaro. Gus, accolto con carezze ed abbracci del padrone, è quasi consapevole di essere il suo unico compagno pacificante in una quotidianità scandita dal cercare soluzioni ad un’imposta convalescenza senza cavalcate, forse un impiego alternativo, pressato dalle aspettative di chi lo circonda perché riconquisti la normalità. La sera, attorno al fuoco delle confidenze tra pari all’imbrunire, tra una birra e ricordi d’avventure vissute, le preghiere salvifiche sono tutte riservate a Lane. L’amico prodigio, “perduto” e sopravvissuto miracolosamente ad un incidente che l’ha semiparalizzato, vive in una struttura riabilitativa.

Il giorno dopo che suo padre si trova costretto a vendere Gus per pagare l’affitto, Brady decide di riprendere ad addestrare i cavalli, dopo un temporaneo impiego al supermercato locale. Ha un dono nel guidarli e nell’addomesticarli, infondendo in loro la fiducia che serve a barattare la libertà. Ha una straordinaria propensione all’ascolto delle anime, come se tra il cielo e le praterie che attraversa, a piedi o al galoppo, lui fosse l’anello di congiunzione tra il terreno ed il trascendente.

La cicatrice sulla testa di Brady non è il segno più profondo del suo dolore: ogni giorno, la grande assente nella sua quotidianità è sua madre, prematuramente scomparsa, da cui a preso l’indole testarda ed insieme resiliente. Per tutto il film è come se, il fatto di dover rinunciare ai propri desideri, non fosse altro che amplificatore di un dolore più grande, forse neppure del tutto cosciente, di un vuoto di cui si fanno traccia sensibile il vento e le nuvole vivide, quasi antropomorfiche sopra la testa.

L’ennesimo segnale dell’impossibilità di poter cavalcare e di fare rodei, con il peggioramento delle sue crisi convulsive, non gli lascia altra scelta che restare in ascolto dei consigli del suo amico fraterno Lane che, prima di lui, ha dovuto scendere a patti con la sua disabilità: così, un nuovo alfabeto di gesti codificati e la prossimità degli abbracci si trasformano negli unici umanissimi ed efficaci espedienti per sciogliere l’inquietudine d’esser sopravvissuti. Insieme.

Zhào porta sullo schermo, ed alla luce, una storia di marginalità e resistenza al progresso del mondo tecnologico, senza retorica politica ma facendo dei corpi e dei volti metafore di uno spazio-tempo in cui l’umana evoluzione è mai ferma e sempre possibile. La storia di The rider è biograficamente mimetica a quella dei protagonisti, con i personaggi (incontrati durante la lavorazione del suo primo lavoro “Songs my brothers taught me”, ambientato nella medesima riserva, ndr) che interpretano loro stessi;  Ciò che caratterizza e rende unico, in accezione identitaria, il cinema di Chloe Zhào, è la capacità di esaltare le qualità umane dei personaggi lasciandoli muovere ed agire nei tempi fisiologici, propri ed unici.

La linea dell’orizzonte non divide mai nettamente l’inquadratura ma è quasi sempre la luce a determinare il fulcro della messa in discorso, a costo d’apparire un espediente artificioso, non naturalistico. Ciò che non divide separa, ma senza escludere la possibilità della contaminazione: Brady vorrebbe forse morire, ma è altrettanto consapevole che con una scorciatoia non conoscerebbe la pace, così sceglie di restare abitante di un mondo in cui non si riconosce più, facendosi cullare dalla voce fraterna di chi gli ha promesso incondizionato amore, guidato dalle luci del cielo notturno.