A Marina, la mia iniziatrice
A Giorgia e Bianca, le mie possibilità di “venirne a capo”
SPECIAL: NO HERO JUST HUMAN WITH CRACKS ON THE SHELL
“Io accetto la mia disabilità, è solo che devo ancora vivere in un mondo che non sa che farsene di me e questo è molto penoso, fa schifo non voglio indorare la pillola”
Imbattersi in Special, la serie Netflix di cui è uscita la seconda stagione lo scorso giovedì, con protagonista (anche ideatore) Ryan O’ Connell all’anagrafe/Hayes sullo schermo, è come incontrare un gemello del destino. Sì, mi riferisco proprio al cartone animato del 1991: storia di due gemelli adiacenti in culla, diversi (anche etnicamente) eppure uniti dal destino di cambiare il loro Mondo con la forza dell’empatia, luce e dall’aura azzurra, sorgente di un potere che scaturisce dal contatto tra le mani dei due fratelli in grado di rivelare o smascherare l’anima delle persone.
Ryan si mette metaforicamente davanti allo specchio, la sua metà specchiata si afferra per la camicia ripromettendo a se stessa di non mentire mai, di mettersi a nudo, nel bene e nel male, facendo dei suoi pregi e dei suoi difetti, delle proprie conquiste e delle proprie sconfitte, testimonianza della volontà di trovare il proprio posto nel Mondo. Prima di chiudere la porta del bagno, prende per mano lo spettatore e si lancia balzando a lato delle strade della periferia di Los Angeles.
Da spettatori lo incontriamo per la prima volta mentre cammina per strada con le cuffie e, al terzo passo, lo vediamo inciampare in un ostacolo invisibile con un tonfo. Non ha rotto gli occhiali, a cadere ci è abituato e ha palesemente imparato a farlo per non farsi male; prontamente si rialza puntando le mani sull’asfalto. Un giovane passante gli offre aiuto, lui rifiuta spiegando che è la paralisi celebrale ad avergli fatto perdere l’equilibrio: presenta la propria disabilità con disinvoltura, come la mancata coordinazione, l’alterata funzionalità motoria e la scarsa fluidità nel movimento. L’urlo del bambino in risposta a tale rivelazione sintetizza e mette in scena senza filtri tutta la paura e l’ignoranza che, in un adulto medio, mutua uno sguardo indifferente di chi si volta dall’altra parte.
Un giorno come tanti, Ryan viene accidentalmente investito da un’auto, incidente che fortunatamente gli procura soltanto la frattura del gomito: tre mesi dopo quel giorno, quella stessa disavventura si rivelerà il suo più grande amuleto per presentarsi “normale” ai suoi nuovi colleghi di lavoro. Lo userà, infatti, per giustificare le sue anomalie fisiche e lentezze funzionali, così da non dover menzionare la propria disabilità in modo diretto, anche se implicitamente la stessa gli dona qualcosa di incomprimibile e non totalmente dissimulabile.
Successivamente trova un posto da tirocinante presso Eggwoke, un blog gestito da Olivia, incarnazione delle implicazioni della desiderabilità sociale con la coda velenosa di uno scorpione al posto dell’empatia. Anoressica e bulica di attenzioni, always black dressed inside-out, vive e sentenzia l’operato dei suoi sottoposti con la missione di demistificare qualsiasi istinto emotivo altrui; tuttavia, i suoi giudizi risultano crudi e dissacratori al punto da rivelare la verità più scomoda di ognuno dei suoi collaboratori. Cordialmente, chi scrive l’ha soprannominata un grillo parlante reincarnatosi in una mantide.
Una volta ambientatosi al lavoro, etichettato come “quello affetto da zoppia cronica” o più brevemente diva per il suo essere dichiaratamente gay, Ryan consoliderà la sua complicità con l’altra diva dell’ufficio Kim, giovane donna indiana che ha fatto del suo look fashion e della body positivity, reali strumenti per sentirsi parte di un mondo in cui essere straniera in un corpo curvy sono in cima alla lista “not cool features”. Il soprannome le deriva dal suo talento di blogger, i suoi post ironici ed irriverenti sono sempre tra i più letti.
In Special tutto questo è solo l’inizio: il nostro protagonista, grazie al suo nuovo impiego, scoprirà nuove possibilità di socializzazione che lo porteranno a volersi rendere autonomo dalla propria famiglia, catapultato nel mondo adulto dalla scoperta del proprio corpo quale strumento primo del fare esperienza. Il sesso, in questo caso, si rivela ambito non propriamente secondario nella ricerca della propria identità tutta.
In questa narrazione, la disabilità è soltanto una delle innumerevoli declinazioni della diversità socialmente considerate anomalie (più in generale) e viene usata per far conoscere da vicino le implicazioni dell’essere percepito diverso. Allo spettatore vengono offerti lo spazio e il tempo per provare a capire gli effetti e le implicazioni di chi ha una disabilità, a partire dall’universo interiore del personaggio e dal suo sentire. Questo consente di percepire in che modo la lentezza e un diverso bioritmo, tanto quanto l’appartenenza ad una minoranza sessuale o culturale, siano aspetti molto più diffusi e complessi di quello che l’economia cognitiva, produttrice degli stereotipi, ci porta a credere .
La disabilità viene raccontata dall’interno con dettagli inediti capaci di dare il senso di come il diventare persona comporti il venire a patti con le implicazioni della diversità stessa, nella consapevolezza di quanto sia necessario conoscere il proprio corpo e rispettarlo. Allo stesso modo, e con uguale spazio, questa serie mette parallelamente in discorso quanto autonomia ed inclusione siano possibili solo a seguito della concreta possibilità di fare esperienza. Nel fare esperienza è cruciale imparare a scegliere per se stessi: dalle scarpe, al congruo appartamento dove poter invitare i propri amici ed i propri partner al riparo da madri co-dipendenti tanto quanto da figli impiccioni.
A ciò si aggiunge la precisa scelta di presentare ciascun evento della vita di Ryan e di chi con lui condivide la quotidianità, senza alcuna portata straordinaria di un traguardo irraggiungibile, quanto piuttosto come singole tappe di un percorso di costruzione di una concreta “normalità” vivibile. Ogni conquista è necessaria nella prospettiva di sentirsi parte della propria comunità nel rispetto della propria identità unica.
Mentre nella prima stagione ci viene presentato il protagonista alle prese con la propria personale accettazione di persona con disabilità non grave, ventottenne gay co-dipendente da madre caregiver per destino, nella seconda Ryan affronta il Mondo, entra a farne parte sperimentando tanti tipi di relazioni diverse, ri-scoprendo di non essere l’unico al Mondo a cercare il proprio posto: comunque vada, il confrontarsi con Altri si rivela risorsa per scoperte altrimenti impensabili. Attraverso l’intera durata della serie, Ryan attraversa e sperimenta molte sfumature delle relazioni sociali e tra partners tutt’altro che stabili, finendo per decidere di non essere pronto a stare in una relazione per scelta consapevole più che per paura del dolore.
C’è poi un ultimo aspetto importante che occorre affrontare parlando di questa pionieristica serie: il come. Sin da subito, il registro ironico si rivela il timbro privilegiato per fare degli scambi verbali, pungenti a tratti spietati, la scelta vincente per non eludere la pluralità di sguardo nel tematizzare la disabilità e la diversità. Il tutto stemperando le impasse con calviniana leggerezza. Ogni dialogo è metafora di un confronto, un’occasione per presentare costantemente i due aspetti complementari delle questioni poste. La “narrabilità” stessa nasce da congenite opposizioni di tesi in qualche modo complementari e ogni scambio è prova di quanto le parole abbiano un potere esoterico e rappresentino quella insita possibilità di presentare la dualità di ogni prospettiva.
Ci sono tante sequenze che rimarranno dentro come traccia di un’ immedesimazione totale, ma non posso non citare una scena per tutte: la rottura tra Ryan e il suo primo fidanzato Tanner (normodotato). Al culmine del litigio, Ryan accusa Tanner di non capire la sua disabilità, quest’ultimo chiede spiegazioni, con il nostro protagonista convinto di non dovergliene visto che si sono scelti, Tanner si ribella alla superficialità riservatagli da Ryan finendo per giustificare il suo negare spiegazioni come l’espediente perfetto per continuare a sentirsi la vittima (il debole-parte lesa tra i due). Si apostrofano a vicenda e lo scambio si chiude.
In questa sede, non mi è possibile dettagliare ulteriormente lo scambio, ma sono al corrente dell’esistenza di chi sostiene che le affermazioni del normodotato siano lo specchio dell’abilismo imperante. Chi scrive sostiene, per esperienza, come la scena sia invece la pura presentazione di un litigio in piena regola con argomentazioni che contrastano anche a causa dei rispettivi background culturali da cui provengono i due amanti. È naturale che ciascuno porti nella relazione parti del suo passato, quanto è presuntuoso credere che l’incontro con la diversità implichi un cambiamento repentino delle certezze; sono convinta del fatto, invece, che sia proprio la continuazione del dialogo a condurre una conoscenza profonda in grado di smantellare gli stereotipi.
Sono la reale reciprocità e l’autentico scambio a dar vita al concreto cambiamento, ma proprio come testimonia la sequenza in questione non tutte le persone con disabilità sono pazienti o desiderosi di trovare la persona della vita nella prima relazione non occasionale, quanto può essere vero che l’Altro creda che amare qualcuno a parole sia sufficiente per tenerlo con sé. Le relazioni vanno vissute per quello che sono, per quello che ci danno e ci offrono, se poi diventa una possibilità di scoprirsi migliori lungo la strada rispetto a quando ci si è incontrati, la relazione ha fatto il suo più riuscito percorso; tengo a precisare che il mio giudizio anti-abilista è circostanziato alla sequenza presentata, non intendo supporre che la discriminazione verso le persone con disabilità non esista o che non sia una questione grave.
Un’ ultima cosa: Special ha gettato un seme, divenuto germoglio, di nuove possibilità per una rappresentazione sempre più autentica della disabilità e della diversità. In Italia in particolare, questo prodotto illumina un vuoto di narrazioni tutto da riempire, anche se rare eccezioni (a prescindere dalla riuscita dei prodotti) si sono affacciate o si stanno affacciando sulla scena desolata: penso ai lavori del collettivo di Making of Love o il documentario Because of my Body di Francesco Cannavà solo per citare i primi due della personalissima lista di chi scrive.
La cancellazione della serie alla fine della seconda stagione, a torto, può essere letta come un segno di come vengono considerate difficili da universalizzare vicende come quelle portate alla luce proprio da Ryan O’Connell, certamente unico e non replicabile ma al contempo testimone del modo in cui le storie singolari possano rappresentare il sentire e il microcosmo dei molti che la disabilità e la diversità la vivono sulla pelle quotidianamente. Esistono tante storie quante sono le persone in questo mondo, ciascuna con pari dignità e diritto d’esser rappresentata ancor prima che raccontata.